Usiamo spesso la parola “bestia” come insulto, riservato agli esseri umani che agiscono con crudeltà o violenza scioccante. Ma è davvero giusto verso le “bestie”, cioè gli animali non umani?
Nel suo libro “Le bestie siamo noi. Cosa possiamo imparare dagli animali sul bene e sul male”, (tradotto in italiano dalle edizioni Sonda) Jeffrey M. Masson mette in discussione questa convinzione. I comportamenti che etichettiamo come “bestiali” — tortura, odio, violenza insensata, persino genocidio — non esistono nel regno animale. Perfino atti come lo stalking, la possessività o la violenza nelle relazioni intime sono esclusivamente umani, nati in società costruite sulla proprietà e sulla gerarchia. Tutta questa “bestialità” è, in realtà, profondamente umana. In migliaia di anni, nessun’altra specie ha causato tanta sofferenza alla propria o ad altre specie, né al pianeta stesso.
Masson ci invita a riconsiderare cosa sia davvero la crudeltà — e chi ne sia capace. Come scrisse Dostoevskij: “Si parla talvolta di crudeltà bestiale, ma è un’ingiustizia e un insulto verso le bestie. Una bestia non può mai essere così crudele come un uomo, così artisticamente crudele.”
Questa osservazione è ancora valida più di un secolo dopo. Vale la pena rifletterci la prossima volta che diamo della “bestia” a qualcuno. Il linguaggio plasma la nostra visione del mondo. E usare nomi di animali come insulti non solo travisa chi siano gli animali non umani, ma non ci aiuta neanche a costruire un mondo in cui la loro sofferenza venga presa sul serio.
Come siamo diventati così crudeli?
Jeffrey Masson sostiene che la crudeltà umana non sia una parte inevitabile della nostra natura, ma uno sviluppo storico. Una delle sue origini principali, suggerisce, risiede nella domesticazione degli animali.
Masson collega questa trasformazione a un momento cruciale: la nascita dell’agricoltura. Prima di allora, gli esseri umani vivevano come cacciatori-raccoglitori nomadi. Possedevano poco o nulla, quindi non esisteva proprietà privata per cui valesse la pena uccidere. In caso di conflitto con un altro gruppo, si poteva semplicemente decidere di spostarsi ed evitare il conflitto. Ma con la domesticazione delle piante — e soprattutto degli animali — tutto cambiò.
Una volta recintate le terre e rinchiusi gli animali, i conflitti divennero inevitabili. Le persone non volevano più semplicemente andarsene da ciò che consideravano proprio. La proprietà richiedeva protezione, la protezione sfociava nella guerra, e la guerra portava con sé la tortura. Come sottolinea Masson, la tortura non è naturale: il fatto che abbia un inizio storico preciso dimostra che poteva essere evitata.
La domesticazione non cambiò solo il nostro modo di vivere — cambiò anche il nostro rapporto con gli altri esseri viventi. Quando gli animali erano selvatici, cacciarli era difficile e pericoloso. Ucciderli era spesso accompagnato da rituali, rispetto, e persino reverenza. Molte culture indigene — tra cui Inuit, aborigeni e nativi americani — chiedevano perdono prima di togliere la vita a un animale. Era un atto grave, riconosciuto come tale.
Ma la domesticazione spezzò quella relazione. Gli animali, un tempo considerati esseri viventi degni di rispetto, diventarono proprietà: oggetti allevati per essere consumati, privati della propria volontà e del controllo sulla loro vita. La loro sofferenza divenne facile da ignorare. E con questo distacco nacque una nuova forma di crudeltà: non dettata dalla sopravvivenza, ma dalla comodità, dal controllo, dall’indifferenza.
Masson afferma anche che questo cambiamento ebbe conseguenze ben oltre il nostro rapporto con gli animali. Gli stessi sistemi che hanno normalizzato la violenza contro gli animali, hanno contribuito a radicare altre forme di violenza, in particolare contro le donne. La proprietà e la gerarchia diventarono modelli sociali.
In questo senso, Masson riprende e approfondisce la celebre tesi di Jared Diamond, secondo cui l’agricoltura è stato “il peggior errore nella storia dell’umanità”. L’aspettativa di vita diminuì. Aumentarono la malnutrizione e la diffusione delle malattie. In cambio della libertà e dell’uguaglianza, abbiamo ottenuto sedentarietà, stratificazione sociale e scarsità. Ma Masson aggiunge qualcosa di ancora più radicale: insieme a queste conseguenze materiali, ci fu una trasformazione più silenziosa e insidiosa — la normalizzazione della sofferenza animale. Questo cambiamento non rimase confinato al nostro rapporto con gli animali: ridefinì i nostri confini morali. Abituandoci all’indifferenza verso il dolore animale, abbiamo imparato a essere più violenti, più insensibili, e infine più capaci della brutalità sistemica che segna tanta parte della nostra storia.
La natura innaturale della violenza umana
Masson rafforza il suo argomento centrale — che la violenza insensata è una caratteristica esclusivamente umana — analizzando una serie di esempi. Così facendo, smonta molti miti comuni sul comportamento animale, inclusi alcuni in cui anch’io credevo. Più volte dimostra che, quando la violenza si manifesta nel mondo animale, ha uno scopo preciso e ha una scala limitata. La violenza umana, al contrario, è spesso gratuita, eccessiva e profondamente crudele. Parte della nostra confusione, suggerisce Masson, nasce dalla tendenza a proiettare la nostra brutalità su altre specie — scambiando i loro istinti di sopravvivenza con i nostri modelli di dominio e distruzione.
Guerre e uccisioni. Masson sostiene che la violenza umana non sia solo maggiore in scala rispetto a quella animale — ma fondamentalmente diversa nella sua natura. Nessun’altra specie fa guerre come gli esseri umani. Solo noi pianifichiamo, organizziamo e coordiniamo uccisioni di massa contro membri della nostra stessa specie, non per sopravvivere, ma per ottenere potere e territorio, o per ideologia e vendetta.
L’aggressività animale, al contrario, è situazionale e contenuta. Nasce per lo più da dispute sul cibo, sul territorio o sull’accoppiamento. Anche tra specie considerate “aggressive” — come scimpanzé o lupi — i conflitti raramente si concludono con la morte. Sono più simili a omicidi colposi che a omicidi premeditati. E naturalmente, nessun’altra specie ha mai commesso atti di violenza su una scala paragonabile a quella delle guerre umane. Le guerre non sono anomalie nella nostra storia — ne sono il filo conduttore. Solo questo, suggerisce Masson, dovrebbe farci riflettere su quale specie sia davvero “bestiale”.
Violenza sessuale. Forse gli esempi più inquietanti di violenza sono quelli usati come strumenti di guerra psicologica — come lo stupro sistematico di donne durante i conflitti. Durante la guerra civile spagnola, le milizie al servizio di Franco usarono la violenza sessuale per terrorizzare le città conquistate. Non era un effetto collaterale, ma una strategia: lo stupro diventava un mezzo per “dare una lezione” all’opposizione politica, soprattutto anarchicə e comunistə. Non si tratta solo di brutalità — è una crudeltà ideologica. E non ha alcun parallelo nel mondo animale.
La ricerca sul comportamento animale conferma che non esistono casi documentati di copulazione forzata con cuccioli tra i primati non umani. Sebbene l’infanticidio si verifichi in alcune specie per ragioni evolutive — ad esempio, quando un nuovo maschio prende il controllo del gruppo — non è accompagnato da violenza sessuale. I bonobo, spesso citati per la loro attività sessuale frequente e diversificata, sono particolarmente notevoli da questo punto di vista. Le loro società sono dominate da alleanze femminili forti e da bassi livelli di aggressività, che impediscono efficacemente la coercizione sessuale. Anche quando l’attività sessuale coinvolge individui di età diverse, è in genere consensuale e funzionale dal punto di vista sociale — non violenta né sfruttatrice.
La violenza sessuale umana, al contrario, è spesso brutale e premeditata. Nei suoi casi più estremi, si sovrappone all’omicidio — soprattutto quando coinvolge bambinə. Mentre gli umani hanno studiato e documentato l’abuso e l’uccisione di minori, nessun’altra specie animale è mai stata osservata compiere atti simili. Quello che definiamo “animalistico” è, in questo e in molti altri casi, qualcosa di profondamente e unicamente umano.
Uccidere per il cibo. Tendiamo a immaginare la natura come un campo di battaglia costante — dominato dalla legge del “mangia o vieni mangiato”. Ma Masson ci invita a rivedere questa immagine, frutto soprattutto delle nostre paure proiettate sul mondo animale. In realtà, solo circa il 10% dei mammiferi è carnivoro. La stragrande maggioranza è erbivora: animali che possono essere vigili, ma raramente aggressivi.
Anche quando gli animali uccidono, lo fanno per sopravvivere. Non c’è piacere nell’atto, né spettacolo, né trofei. La caccia, nel mondo selvatico, è una questione di necessità, non di ideologia, vendetta o dominio. Al contrario, gli esseri umani hanno trasformato l’uccisione in un rituale, in uno spettacolo, in un’industria redditizia.
E, diversamente dal regno animale, gran parte di questa violenza non è affatto necessaria. Un leone uccide per sopravvivere — e solo quando ha fame. In natura, l’uccisione è funzionale, non gratuita. Gli esseri umani, invece, uccidono spesso non per bisogno, ma per desiderio. Come nota Masson, c’è un solo alimento progettato biologicamente per il consumo umano: il latte materno. La maggior parte delle persone oggi non ha alcuna necessità di mangiare carne o altri prodotti animali per sopravvivere. Eppure continuiamo a farlo — pur sapendo che questo comporta la prigionia, la sofferenza e l’uccisione di miliardi di animali ogni anno, oltre alla distruzione degli ecosistemi necessari per sostenere questo sistema.
Come chiarisce Masson, la nostra violenza non nasce dalla fame. Nasce dalla preferenza. E questa scelta — soddisfare i nostri desideri attraverso la sofferenza degli altri — è ciò che rende la crudeltà umana così unica.
Uccidere per l’accoppiamento. Lo stesso vale per la violenza legata all’accoppiamento. Gli animali competono per i partner, ma questi scontri raramente finiscono con la morte. Masson stima che solo nell’1% dei casi di conflitti si abbia un esito fatale. I conflitti per la riproduzione tendono a manifestarsi con dimostrazioni di forza, non con combattimenti mortali.
Prendiamo gli scimpanzé, ad esempio. La cultura popolare li rappresenta spesso come creature selvagge e bellicose, rafforzando la narrativa secondo cui la violenza umana sarebbe “naturale” poiché condividiamo oltre il 98% del nostro DNA con loro. Ma anche questo è fuorviante. Sebbene gli scimpanzé talvolta difendano il proprio territorio — e in rari casi uccidano intrusə — tali eventi sono eccezionali e non presentano le caratteristiche tipiche della violenza umana. Non ci sono piani, né ideologie, né crudeltà gratuita. L’intento sembra essere reattivo, non premeditato.
In ogni caso, Masson mostra chiaramente come gli animali uccidano quando devono. Gli esseri umani, al contrario, spesso uccidono quando non ne hanno alcun bisogno.
L’invenzione delle gerarchie
La gerarchia esiste anche nel mondo animale — ma ha una funzione molto diversa rispetto alle società umane. Tra gli animali, le strutture di dominanza hanno scopi pratici: regolano l’accesso a bisogni concreti come il cibo, l’acqua o le opportunità di accoppiamento. Sono limitate, spesso temporanee, e tendono a cambiare con l’età o la forza fisica.
Le gerarchie umane, invece, sono pervasive e spesso crudeli. Non si limitano a regolare l’accesso alle risorse, ma definiscono interi ordini sociali. Servono a esaltare alcuni e umiliare altri, a giustificare disuguaglianze sistemiche e a cancellare l’empatia verso chi è considerato “inferiore”.
Secondo Jeffrey Masson, è proprio questo distacco psicologico che permette agli esseri umani di compiere le peggiori atrocità. Nessun animale commette genocidi. Ma gli esseri umani sì — ripetutamente. È la logica della gerarchia che lo rende possibile: una volta che consideriamo qualcunə come “meno di”, la sua sofferenza smette di contare. Possiamo trattarlə come scartabile. L’intero apparato dell’oppressione — colonialismo, schiavitù, patriarcato, allevamenti intensivi — si basa su questa capacità di non sentire nulla di fronte al dolore dell’altrə.
In questo senso, la gerarchia non danneggia solo gli individui. Avvelena intere società.
I lupi sono davvero violenti?
I lupi sono un’altra specie spesso fraintesa e descritta come pericolosa o aggressiva. In realtà, raramente uccidono altri lupi. Vivono in unità familiari molto coese, con strutture sociali complesse che si basano più sulla cooperazione che sul conflitto. Tuttavia, ricerche più recenti condotte dall’esperto David Mech complicano questo quadro. Secondo le sue stime, fino al 25% delle morti tra lupi sarebbero causate da altri lupi.
Masson non nega questi dati — ma ci invita a guardare più a fondo. Basandosi sul lavoro di G.A. Bradshaw, suggerisce che buona parte di questa aggressività intra-specifica potrebbe non essere affatto naturale, bensì il risultato di traumi indotti dall’interferenza umana. Proprio come Jane Goodall ha collegato l’aumento dell’aggressività negli scimpanzé alle pratiche umane di alimentazione artificiale, Bradshaw ha dimostrato che gli elefanti — soprattutto i maschi adolescenti — possono sviluppare comportamenti iper-aggressivi se esposti a stress prolungati, perdita dell’habitat o disgregazione del gruppo sociale (non è forse lo stesso anche per gli esseri umani?). Secondo Bradshaw, questi elefanti soffrono di qualcosa di molto simile al PTSD umano.
E va oltre: descrive la civiltà industriale occidentale come traumatogenica — ovvero capace di creare condizioni che rendono il trauma non solo possibile, ma probabile. Elefanti, grandi primati, pappagalli — e probabilmente molte altre specie — hanno ricevuto diagnosi di disturbi traumatici dopo aver vissuto in cattività, per la distruzione del loro territorio, o separazioni forzate dalle loro famiglie. Perfino negli allevamenti, gli animali mostrano comportamenti aggressivi o disfunzionali non perché lo abbiano “nella loro natura”, ma per ciò che noi gli abbiamo fatto.
Quindi, se oggi i lupi si attaccano a vicenda più frequentemente del passato, forse la causa non sta nella loro biologia, ma nell’esposizione a un mondo che noi umani abbiamo profondamente destabilizzato.
E nonostante la loro fama terrificante, gli attacchi mortali da parte di lupi selvatici contro esseri umani in Nord America sono estremamente rari. Dal 2005, si sono verificati solo due episodi confermati, mentre gli attacchi non letali restano comunque poco comuni. Solo questo dato dovrebbe portarci a mettere in discussione la nostra tendenza a demonizzarli. Se c’è qualcosa da ammirare, è la loro straordinaria moderazione, anche dopo secoli di persecuzioni.
La cultura delle orche
Se definiamo la crudeltà come violenza priva di necessità o empatia, allora molti degli animali che consideriamo “feroci” o “selvaggi” sono, in realtà, tutt’altro. Prendiamo le orche, per esempio — comunemente conosciute come orche assassine. Già il nome è una proiezione delle nostre paure e fantasie.
In realtà, le orche appartengono alla famiglia dei delfini, e la loro vita sociale è segnata non dalla violenza, ma dalla cura e dalla complessità. In un’osservazione documentata nel 1974, alcuni ricercatori videro due orche sorreggere un terzo esemplare ferito, impedendogli di girarsi su un fianco e affogare. Non sappiamo se quell’individuo sia sopravvissuto — ma il gesto in sé era evidente: compassione coordinata.
Le orche sono animali imponenti. I maschi possono raggiungere i 10 metri di lunghezza e pesare fino a 8.000 kg. Mangiano in media più di 200 kg di cibo al giorno. Solo la loro stazza può portarci a vederle come minacciose. Ma in realtà, sono molto più simili a noi di quanto siamo disposti ad ammettere.
Vivono in società matrilineari, con lunghissime aspettative di vita e nessun predatore naturale. Come noi, allevano la prole per anni. Possiedono una cultura — con dialetti distinti, regole sociali e tecniche di caccia tramandate da una generazione all’altra. Ogni gruppo ha le proprie abitudini, preferenze e persino tratti caratteriali. Alcuni sono più giocosi, altri più dominanti. Queste differenze non sono frutto della “natura” — ma della cultura. Proprio come gli esseri umani, anche le orche sono modellate dalla società in cui nascono.
Anche i loro cervelli sono straordinari — non solo per dimensioni, ma per complessità. Le orche, come gli umani, hanno pieghe profonde nella corteccia frontale, associate all’intelligenza sociale e all’elaborazione emotiva. I ricercatori hanno anche identificato nel cervello delle orche le cellule fusiformi — le stesse che si credeva un tempo esistessero solo negli esseri umani e nei grandi primati. Queste cellule sono associate all’empatia, all’amore e al lutto.
E allora, cosa significa il fatto che gli stessi marcatori biologici che utilizziamo per definire la nostra umanità — la nostra capacità di provare emozioni profonde — siano presenti in esseri che rinchiudiamo in vasche per insegnare loro a saltare attraverso cerchi?
Domande per riflettere e discutere
Perché etichettiamo come “bestiali” i comportamenti più violenti degli esseri umani? Cosa ci dice questo sul modo in cui vediamo gli animali non umani?
Cosa pensi dell’argomento di Masson secondo cui la domesticazione degli animali ha contribuito a plasmare la crudeltà umana?
Quali sono, secondo te, le principali differenze tra la violenza umana e quella degli animali non umani?
Perché esistono così tanti stereotipi sulla violenza animale? E in che modo questi stereotipi sono collegati a quelli che colpiscono gli esseri umani considerati “inferiori”? (In altre parole: come si collega lo specismo al razzismo o al sessismo?)
Quando pensi alla violenza tra animali, quali immagini ti vengono in mente? Hai mai verificato se quelle immagini si basano su dati reali o su miti?
Mangiare carne spesso richiede una certa indifferenza verso la sofferenza dell’animale ucciso per il nostro piacere. Secondo te, questo tipo di distacco emotivo può essere una pratica quotidiana per altre forme di indifferenza?
Cosa pensi della presenza di gerarchie nella società umana?
Come concili il numero estremamente basso di attacchi mortali da parte dei lupi con la paura diffusa e gli stereotipi negativi che abbiamo su di loro?
Perché animali come le orche sono spesso conosciuti solo per la loro capacità di uccidere, invece che per la loro intelligenza, la loro cultura e la loro capacità di provare cura e compassione?